È stato il simbolo di un’intera generazione, ha fatto gioire e soprattutto impressionare gli amanti del basket e non solo. Kobe Bryant lasció la pallacanestro nel 2016 dopo svariate conquiste, lui, l’americano più italiano di tutti con diversi anni trascorsi nel “bel paese”. Il primo piede messo nella nostra penisola fu a Rieti, al seguito di suo papà Joe.
Siamo andati alla ricerca del suo primo coach, colui che lo ha visto per la prima volta gonfiare la retina e far divertire, è Gioacchino Fusacchia, questa è la sua intervista rilasciata all’emittente Elive Brescia.Tv:
In quale occasione ha incontrato Kobe Bryant per la prima volta?
“La prima volta che l’ho visto era a cavallo tra agosto e settembre del 1984, quando lui era al seguito di suo papà Joe Bryant che venne a giocare a Rieti nella Sebastiani, in serie A2. Venne al Pala Cordoni da me e Claudio Di Fazzi, l’altro istruttore, per iscriversi al minibasket, cio che accade ancora ora a tantissimi bambini a Rieti e non solo”.
Era soltanto un bambino, ma già allora aveva visto qualcosa di speciale in Kobe?
“Adesso è facile dire avevo visto ecc.. No, era un bimbo normalissimo come tanti ma con una grande differenza: aveva una grande voglia di giocare a basket oltre che a una grande determinazione. Raramente dopo di lui ho visto bambini di quella età con così tanta ossessione e voglia, in questo era unico. Ovviamente c’era anche il talento, quello si vedeva anche se aveva sei anni. Da qui però a dire che sarebbe diventato quel che è stato sarebbe una bugia”.
Lei è stato il primo allenatore in assoluto di uno dei più grandi giocatori di pallacanestro. cosa si prova?
“Allenatore è una parola grossa per un bambino dei sei sette anni… Diciamo che sono stato il primo a dargli dei riferimenti, dei fondamentali per la pallacanestro. Il mio merito e quello di Claudio forse è stato il non fargli smettere di giocare, non fargli smettere di avere voglia di basket. Provo soddisfazione e orgoglio ad averlo conosciuto e vissuto un po”.
Lei ricorda la prima partita di Kobe?
“Era un torneo che noi organizzavamo tra i ragazzi, ragazzi di varie annate, Kobe era il più piccolo perché c’erano bambini nati nel ‘75/‘76, Bryant è del 1978. Lui era nella squadra di Claudio, giocava contro la mia, i suoi genitori ci chiesero se poteva comunque giocare e noi abbiamo accettato”.
Io sono a conoscenza di un aneddoto che riguarda coach Di Fazzi ai tempi del minibasket: so che dovette sostituire Kobe Bryant perché era troppo bravo e faceva piangere i suoi avversari. Se lo ricorda?
“Certo, fu proprio in quella partita. Kobe inizió a giocare contro bambini più grandi di età, ma dopo pochi secondi faceva esattamente come suo papà Joe: prendeva la palla non la passava a nessuno, tirava, prendeva rimbalzi senza considerare nessuno. A quel punto io e Claudio ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di toglierlo se no i genitori degli altri bambini si arrabbiavano. Lui non si sedette neanche in panchina, andò dai suoi genitori in tribuna e scoppió a piangere. Dopo lo richiamammo e lo premiammo come MVP, il suo primo titolo individuale direi.”
Kobe ha più volte sottolineato un aspetto che lo faceva sentire un vero italiano: la passione per ciò che faceva, l’amore per la vita. Lei si ricorda che bimbo era anche al di fuori del parquet?
“Era un bimbo molto socievole e sveglio. Ha frequentato le scuole elementari per due anni e mezzo qui a Rieti, nel pomeriggio lui con la sua famiglia viveva eccome la città. Era totalmente integrato. Rieti poi è piccola, la si gira in cinque minuti, lo vedevamo spesso in giro”.
Uno degli aspetti che ha contraddistinto Kobe Bryant è stato la leadership. Personalmente penso sia stato un pilastro di questo concetto abbinato allo sport. Lei ha avuto modo già all’epoca di intravedere qualcosa che poi di riconducesse a ciò che è stato: un simbolo?
“C’è una cosa di cui sono convinto: l’aspetto caratteriale. Questo lo ha sempre contraddistinto, basti pensare ai differenti aneddoti su come si allenava, mattino, pomeriggio, sera, tarda notte. Non si stancava mai di giocare a basket, ripeteva tiri, palleggi e aveva questa determinazione che oggi è difficile trovare in un bambino”.
Kobe ha mostrato al mondo intero un fondamentale che è di fatto suo: il tiro in allontanamento. Jordan ci mostró qualcosa, lui però lo perfezionó. Oggi questo modo ti tirare lo conoscono tutti i giocatori, viene eseguito da tantissimi cestisti in qualsiasi categoria anche del nostro paese. Cosa penso a riguardo? È un esempio di quanto lui sia stato un perfezionista in ciò che amava?
“Quel movimento fantastico lo faceva spesso suo papà Joe. Kobe probabilmente ce l’aveva nel dna, lo aveva preso da suo padre che lo faceva benissimo. Suo papà fece per almeno tre o quattro volte più di sessanta punti, per di più in un periodo in cui non esistevano i tre punti, sapeva eseguire il Feedaway benissimo.
Cosa prova attualmente dopo quel che è accaduto?
“Ogni volta che me lo chiedono mi emoziono… La prima cosa è il pensiero che va a lui, alla figlia e a tutte le vittime dell’incidente. In una città piccola come Rieti che lo ha conosciuto, la parola Kobe Bryant era motivo di orgoglio, come se se ne sia andato uno di famiglia”.
Bryant ci lascia a soli 41 anni, con svariati titoli in bacheca, individuali e di squadra, ricordandoci sempre come l’amore per qualcosa sia capace di spingere una persona anche oltre il proprio limite.
Ciao Kobe.
Intervista di Alfredo Novello